CAZZINALE SCIASCIANO

(ripubblicato ex occasione del suo centenario, ma soprattutto come invocazione ad uno spirito libero)

Era il 1969, credo d’estate (anzi sicuramente, e non so perché è l’estate che si intrufola sempre in queste nuvolette di memoria). E lo conobbi. A casa sua. Un piccolo palazzo attaccato a Villa Sperlinga, sulla quale prospettava. Era d’estate ed ero in licenza dall’Accademia Navale di Livorno.

Avevo appena pubblicato il mio primo saggetto “Guida alla Sicilia che scompare” che ebbe notevole successo (se ne stamparono due edizioni). Ero andato a trovare, all’Università, Maria Grazia Paolini, assistente (oggi si direbbe associata) di Cesare Brandi. Mi disse, dopo avermi rimproverato ché non l’avevo citata abbastanza, che Sciascia voleva conoscermi. Così andammo; l’indomani. Era mattina. Ero curioso, intimidito ed insieme arrogantemente contento. Ci accolse con quel suo sguardo puntuto, penetrante, ironico. C’era molta gente. C’era il giovane Gioacchino Lanza Tomasi (prima che giocasse lo scherzetto del quale ho detto in altro cazzinale e che mi aveva alienato la simpatia di Brandi). Aveva l’aria volpina.

Enzo Sellerio; alto (rispetto me, ma non ci voleva molto, in verità) e sicuro di sé, cui (oh l’arroganza giovanile!) contestai alcune fotografie (mi demolì subito, incazzatissimo e pensai, allora, d’aver bucato l’opportunità dell’incontro). C’era Rosario La Duca, alla cui biblioteca avevo largamente attinto e che mi fu maestro nello studio del sottosuolo palermitano e nelle memorie generali della Città. Mi era sinceramente amico. Aveva scritto la prefazione del mio libro. Riuscì a ricucire l’incauto strappo. Altri dei quali ho perduto il volto. Ci fece vedere dei disegni di Bruno Caruso che vestivano un corridoio. Aspettavo il momento, che venne presto, in cui il suo sguardo mi avrebbe interrogato. E così fu a proposito di Diego La Matina che Sciascia aveva resuscitato nel suo racconto. Mi andò bene ché una delle passioni furenti che avevano animato i miei studi era la storia dell’inquisizione in Sicilia. Gli riferii dello stato dei disegni e graffiti dei prigionieri dell’inquisizione dello Steri e del mio sodalizio con lo scorbutico e solitario Giuseppe Quatriglio (questo prima che io diventassi un orso scorbutico). Quello sguardo era una radiografia.

Mi parlò del contratto editoriale ed ebbi modo di raccontargli che l’editore, Massimo Pini con la sua compagna Margherita Boniver l’anno prima erano venuti a Palermo per conoscermi. Mi ascoltò e poi, in articoli successivi, mi citò più volte. Fu un incontro splendido. Lo rividi molto tempo più tardi a Siracusa; lo incontrai per caso in via Roma, in Ortigia. Ebbi modo di donargli, così per strada, il mio “La scomparsa delle fate” che avevo portato alla Libreria Mascali. Era molto invecchiato. Lo sguardo era però sempre quello.

Non ho mai smesso di parlargli. Nella mia mente. Mi ha fatto, quell’invisibile colloquio, sempre buona e tenace compagnia.

E stato una costante “di tenace concetto” a corazzarmi contro i fanatismi ideologici tanto pervasivi oggi.

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